Basta con le privatizzazioni pro-finanza, è tempo di un sano keynesismo

Paolo Maddalena, ex presidente della Corte Costituzionale: le aziende strategiche vanno allo Stato, come dice l'art. 43 della Costituzione.

di Paolo Maddalena

L’articolo di Salvatore Settis, apparso sul Fatto del 25 agosto 2018, dal titolo “Impariamo da Genova a salvaguardare l’Italia“, merita, a nostro avviso, un ulteriore approfondimento sulle “cause” che impediscono da tempo ai nostri governi di porre in essere gli investimenti necessari per evitare i disastri come quello del ponte di Genova. A parte le personali responsabilità, che saranno accertate dalla magistratura, non si può prescindere dal porre in evidenza che esistono anche cause esterne che ci costringono a inseguire i danni, piuttosto che a prevenirli.

Diciamo subito che si tratta del sistema economico finanziario in atto, che ha soppiantato il vecchio sistema keynesiano, che ci ha consentito, nei primi 30 anni del dopoguerra, il cosiddetto “miracolo economico italiano” (un sistema “misto” nel quale convivevano con reciproco beneficio industrie strategiche pubbliche e private), con un sistema economico predatorio, nel quale le imprese pubbliche e i servizi pubblici essenziali sono stati ceduti, a bassissimo prezzo, a società private, le quali non “investono più in prodotti”, ma acquistano altro danaro per poi divenire proprietari di altri beni reali già esistenti. Si è affermato, insomma, il pensiero neoliberista. È un sistema balordo che si fonda su tre principi: a) la ricchezza deve essere nelle mani di pochi; b) lo Stato (e cioè il Popolo) deve essere estromesso dall’economia; c) tra gli attori economici deve esistere una “forte competitività”.

L’assurdità di questo pensiero è smentito dal pensiero keynesiano che si fonda su due semplici principi: (oltre alla necessità di un intervento da parte dello Stato per incrementare la domanda globale anche in condizioni di deficit pubblico (deficit spending), che a sua volta determina un aumento dei consumi, degli investimenti e dell’occupazione, ndr) la ricchezza deve essere distribuita alla base della piramide sociale, poiché sono i lavoratori che vanno ai negozi, sono questi che chiedono prodotti alle aziende e sono queste ultime che assumono lavoratori e producono, creando così un circolo virtuoso (laddove il pensiero neoliberista, come provano i fatti, porta alla disoccupazione, alla miseria, e, in prospettiva, all’accumulazione della ricchezza una oligarchia di individui).

Questo sistema predatorio, dopo l’assassinio di Aldo Moro e con la complicità dei nostri governi, si è esteso all’Italia, la quale è stata onerata di debiti dal mercato globale e non ha saputo far di meglio che vendere le proprie fonti di produzione della ricchezza: le autostrade, le rotte aeree, le frequenze tv, i demani, e persino le isole e le montagne sopra Cortina d’Ampezzo.

Cedere a privati le fonti produttive di ricchezza (che nel sistema keynesiano davano un grande apporto all’attivo di bilancio) è un “danno” ed è fuorviante affermare che il privato produce meglio del pubblico. Ciò può essere vero se si tratta di una piccola azienda, ma non può certo dirsi di chi guadagna attraverso la riscossione di “tariffe”, come è nel caso dei servizi pubblici. Insomma la cessione a privati dei profitti riscossi a seguito di privatizzazione è una vera e propria cessione a un singolo di un bene di tutti.

La verità è che le industrie strategiche che riguardano fonti di energia o sevizi pubblici essenziali, come prescrive l’art. 43 della Costituzione (“A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, ndr), devono essere in mano pubblica o di “comunità di lavoratori o di utenti“. Sono fonti di produzione che producono guadagni ingenti e certi, legalmente previsti (tariffe per l’energia, autostrade ecc.), che non possono essere donati a singoli privati.

Se l’Italia si riprendesse quanto ha incostituzionalmente ceduto a privati, disporrebbe delle somme necessarie per il buon funzionamento dei beni e dei servizi in questione. Come nota Settis, occorrono i controlli, ma una cosa sono i controlli che lo Stato può esercitare su una società privata concessionaria, e altra cosa sono i controlli di diritto pubblico che lo Stato può esercitare sui manager o i funzionari pubblici. Insomma, dopo le esperienze fallimentari delle privatizzazioni, l’imperativo da seguire è: nazionalizzare, ovviamente non tutto, come osserva Settis, ma assolutamente le imprese strategiche e riconquistare così una parte importante dell’attivo del bilancio. Solo così potremo salvare l’Italia.

*Ex presidente della Corte costituzionale

Fonte: Il Fatto Quotidiano 

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3 commenti

  1.   

    Scusa Robertino Fascismo ?

  2.   

    C’era una volta l’IRI robertino 
    Fu istituito nel 1933  durante il fasciamo . Nel dopo guerra  allargò progressivamente i suoi settori di intervento e divenne il fulcro…
    https://it.m.wikipedia.org/wiki/IRI
    Svuota dagli amici degli amici ?
    La Mano Nera si diceva a NY tanti anni fa 

  3.   

    C’era una volta l’IRI Robertino ?
    L’IRI – di Istituto per la Ricostruzione Industriale – è stato un ente pubblico italiano.
    Fu istituito nel 1933, durante il fascismo. Nel dopoguerra allargò progressivamente i suoi settori di intervento e divenne il fulcro dell’intervento pubblico nell’economia italiana. Al 1980 l’IRI era un gruppo di circa 1 000 società con più di 500 000 dipendenti. È stata a suo tempo una delle più grandi aziende non petrolifere al di fuori degli Stati Uniti d’America ; nel 1992 chiudeva l’anno con 75 912 miliardi di lire di fatturato, ma con 5 182 miliardi di perdite.[Ancora nel 1993 l’IRI si trovava al settimo posto nella classifica delle maggiori società del mondo per fatturato, con 67,5 miliardi di dollari di vendite. Trasformato in società per azioni nel 1992, cessò di esistere dieci anni dopo.
     
    Fonte Wikipedia ?