Siete fan di Friedrich Hayek? Ecco cosa prevedeva sull’Europa federata

L'economista della "Scuola Austriaca" caldeggiava una federazione europea che avrebbe consentito di imporre la sua utopia liberista.

PERCHÉ diavolo sorbirsi un articolo accademico, scritto alla vigilia della seconda guerra mondiale da un economista e filosofo nato alla fine del XIX secolo nella capitale dell’Impero austro-ungarico, e deceduto 25 anni fa?

Un motivo c’è: nel 1939 Friedrich Hayek (foto qui sopra), allora residente a Londra e divenuto cittadino britannico, fornì una delle più lucide analisi di un futuro che allora non osava forse neppure immaginare (qualche anno dopo avrebbe denunciato «la via della schiavitù», cioè della crescente statalizzazione delle nostre società) ma che è ormai il presente della nostra Europa del XXI° secolo.

Il filosofo Philipp Van Parijs (foto) ne ha dato una brillante dimostrazione lo scorso autunno, in occasione di una conferenza all’Istituto Europeo di Firenze. In un articolo dal titolo austero — “Le condizioni economiche del federalismo tra Stati” — Hayek caldeggiava una federazione europea che avrebbe assicurato la pace tra le nazioni e consentito al tempo stesso di imporre la sua utopia (neo-) liberista, lasciando il campo libero all’ordine spontaneo del mercato.
Da un lato, perché la libera circolazione dei beni, dei servizi, del capitali e delle persone — che sono oggi le «quattro libertà» dell’Ue — in un mercato unico avrebbe privato gli Stati della facoltà di intervenire sul funzionamento dell’economia con politiche industriali, fiscali, sociali e redistributive; dall’altro perché questa limitazione della sovranità nazionale non avrebbe potuto essere «compensata» o sostituita da una capacità d’azione collettiva a livello della federazione, in ragione delle differenze economiche tra gli stati membri e dell’assenza di un senso d’appartenenza a uno stesso «popolo».
Hayek si chiedeva — a titolo puramente retorico — se «un impiegato della City sarebbe stato disposto a pagare più care le sue scarpe o la sua bicicletta per aiutare i lavoratori belgi ». E di fatto, sembra che il «padre del neoliberismo» abbia avuto più fiuto dei «padri fondatori» dell’Europa.
Si può disquisire sull’armonizzazione fiscale, ma a prevalere è sempre la concorrenza; e i bei discorsi sull’Europa sociale non incidono più di tanto sulla realtà. Peraltro, anche in questo campo l’«armonizzazione» tende verso il basso. Ad esempio, il Belgio ha ammorbidito le sue regole sul lavoro notturno per allinearsi alla legislazione olandese, sperando di ricuperare una parte dell’e-commerce che aveva scelto spontaneamente come sede i Paesi Bassi.
C’è da chiedersi se questa dinamica (perversa) del federalismo tra Stati sia inevitabile. Philippe Van Parijs rifiuta di crederlo. E mette in guardia contro una “soft Brexit” che mantenga inalterato l’accesso al mercato unico del Regno Unito, consentendogli al tempo stesso di sabotare dall’esterno — attraverso la deregulation e la concorrenza fiscale e sociale — ogni volontà (peraltro ritenuta da molti ormai ipotetica) di riconquista del mercato da parte dello Stato.
Se l’Europa — sostiene Van Parijs — non è liberista per qualche causa accidentale, non lo è neppure per la sua stessa essenza. Essa è ciò che decidiamo di farne noi europei. Ma è proprio questo «noi» che va posto in essere se si vuole «un’altra Europa»: quella di un popolo europeo.
Indubbiamente c’è bisogno di una lingua comune, una «lingua franca», che per Philippe Van Parijs sarebbe l’inglese (e perché no?) — ma non soltanto. E servirebbe inoltre la costruzione di un immaginario comune, e di quei «corpi intermedi » che nei nostri Paesi danno vita alla dinamica democratica.
Resta da vedere su quali forze — e su quali interessi — i sostenitori di «un’altra Europa» potrebbero far leva per uscire dalla «trappola di Hayek», quando le classi dirigenti sembrano decise ad approfittare della dinamica attuale per trasformare il «modello europeo».
Ma soprattutto, il tempo stringe. Tra dieci o vent’anni, se non sarà in grado di correggere le disparità di sviluppo delle le sue regioni, l’Unione sarà ancora più eterogenea; il suo modello sociale, lungi dall’estendersi ai nuovi membri, sarà regredito anche in seno ai Paesi fondatori. E in mancanza di un riarmo fiscale, la capacità d’azione degli Stati sarà sempre più ridotta.
Anche se nell’intervallo gli “estremisti” e i “nazionalisti” saranno tenuti a distanza dal potere (cosa tutt’altro che certa) avremo ancora la forza e la voglia di salvare l’utopia europea?
di Dominique Berns
L’autore è un giornalista del quotidiano belga Le Soir
Traduzione di Elisabetta Horvat
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1 commento

  1.   

    L’utopia europea non può essere salvata proprio perchè è un’utopia, e il tentativo di realizzarla è costata finora povertà, morte e disperazione.